Il consumo nella ristorazione in Italia vale oltre 83 miliardi di euro con un trend costante di crescita, +3% rispetto all’anno precedente; si tratta del terzo mercato in Europa per importanza. Il 35% delle spese per consumi alimentari degli italiani sono per mangiare fuori casa, con un netto calo della normale spesa a favore dei luoghi di ristoro.
La ristorazione italiana è peculiare rispetto a tutti i mercati mondiali perché il cibo con tutto ciò che gira intorno ad esso ha un alto valore culturale oltre che economico ed è rappresentata prevalentemente da piccole e medie imprese.
In Italia circa 111 mila attività offrono un tipo di ristorazione classica, con servizio al tavolo, per lo più legata al territorio per le materie prime che trasformano; accanto a queste troviamo i nuovi tipi di ristorazione, che offrono un servizio rapido come take-away, ambulanti, pizzerie, friggitorie ecc… per un totale complessivo di circa 150 mila attività.
I grandi gruppi italiani si occupano della ristorazione collettiva di qualità: leader per fatturato con 573,3 milioni di euro e 60 milioni di clienti in tutta Europa, è il gruppo Cremonini che gestisce il ristoro a bordo treno e in stazioni, aeroporti, autostrade.
Ci sono anche altre realtà che stanno facendo bene sul territorio italiano per citarne due il gruppo cigierre spa con le catene di ristoranti Old Wild West, Wiener Haus, Pizzikotto, Shi’s e America Graffiti e il gruppo Ethos.
Il mercato della ristorazione in Italia è in continuo fermento; negli ultimi anni hanno chiuso molte imprese del settore ma il numero delle nuove aperture -forse sulla scia dei tanti format televisivi- supera di molto le chiusure.
Il tasso di sopravvivenza delle imprese a cinque anni dall’apertura -pari al 52%- è il dato che va analizzato per comprendere meglio le difficoltà che ha un’attività di questo tipo a rimanere competitivamente attiva in un mercato come il nostro. Pensiamo a quanto oggi sia diversificata anche la richiesta del cliente:
su un campione di 100 persone tra i 25 ed i 65 anni intervistate, solo il 20% consuma cibo tradizionale; un altro 20% è vegano/vegetariano; 30% senza glutine; 30% alla patologica e continua ricerca di cibo sano.
Lavorare nella ristorazione, aprire un proprio locale è possibile per tutti, considerati i numeri positivi che rappresentano l’ambito economico; bisogna però caratterizzarsi nell’offerta, puntare all’innovazione senza dimenticare la tradizione, curare la qualità delle materie prime, il sapore come la salubrità: come ad esempio i nuovi franchising monotematici e specializzati solo su determinati prodotti al top qualitativo.
Se il business cibo è consigliabile ad un abile imprenditore, molto meno lo è per il personale, che rappresenta il motore di un ristorante.
Il lavoro nel settore della ristorazione è duro e differente da altre attività; richiede maggiore sacrificio, tempo e passione.
Doppi turni, con orari senza limiti, sono un’altra triste realtà che rende alto il turnover e la percentuale di lavoro in nero.
I ragazzi delle scuole di ristorazione hanno a disposizione un periodo di tirocinio per imparare il mestiere; spesso sono sottopagati e sfruttati ben oltre le 40 ore previste dal contratto.
E’ un settore che occupa complessivamente oltre 650.000 persone in media l’anno, dove si lavora quando il cliente è presente e non le canoniche otto ore.
Da Febbraio 2018 è entrato in vigore il primo “Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per i dipendenti dei settori dei Pubblici Esercizi, della Ristorazione Collettiva e Commerciale e del Turismo”, completamente nuovo e autonomo rispetto al precedente contratto “Turismo”.
Con la flessibilità contrattuale data dal part time orizzontale e verticale e la possibilità del lavoro accessorio, i ristoranti vedono considerata anche la loro necessità di seguire l’andamento dei consumi.