chef famosi

i 5 chef più famosi al mondo

Negli ultimi anni la figura dello chef, complice un sempre maggiore interesse di media e mass media riguardo il settore della ristorazione e della gastronomia, è divenuta sempre più influente, e non mancano classifiche annuali degli chef più conosciuti, ricchi o capaci in Italia o nel mondo. Ma quali sono i 5 chef più famosi al mondo? difficile circoscrivere la classifica ad un numero così limitato, tenuto conto del fatto che sono decine gli chef che vantano una, due o addirittura tre stelle Michelin. Tra di loro vi è uno chef la cui fama precede addirittura la cucina: è Ferran Adrià, di elBulli, tre stelle Michelin ed inserito dal Time nella classifica dei cento uomini più influenti del mondo.

Nel suo ristorante danese Nome, René Redzepi è riucito a conquistare critici gastronomici di tutto il mondo, affascinando con i suoi menù a base di prodotti provenienti dalla gelida Scandinavia. Tra gli italiani non può certamente mancare Massimo Bottura, eletto nel 2011 migliore chef del mondo dalle Accademie delle cucine, con piatti che pesccano dalla tradizione, pensati portare in tavola la semplicità dei sapori con grande estro creativo. Tedesco di origine, ma italianissimo nello stile gastronomico, Heinz Beck è certamente tra i più influenti chef al mondo, in grado di realizzare veri e propri capolavori all’insegna dell’italianità ed in grado di stupire i commensali per la loro raffinata armonia.

E’ un nome universalmente noto per i suoi apprezzatissimi show e talent show televisivi, ma è anzitutto uno chef di grandissima esperienza in grado di conquistare tre stelle Michlen dopo soli tre anni dall’apertura del suo omonimo ristorante. E’ Gordon Ramsay, certamente tra gli chef più famosi per la sua potenza mediatica ma anche per la straordinaria qualità e creatività dei suoi piatti, realizzati con maestria e massima professionalità.

cucina e tv

Tv e cucina, trend in forte aumento

Cooking show, realizzazioni di ricette, talent show per aspiranti cuochi, ‘cucine da incubo’ che vengono rivoltate da cima a fondo per ridar loro un tono ed una strigliata ai gestori sfiduciati. Quello della cucina in tv, è un trend in netto e forte aumento, un’invasione sul piccolo schermo di padelle, fornelli e grembiuli per valorizzare la gastronomia italiana tra materie prime di qualità, ricette della tradizione ed un pizzico di creatività ed innovazione. Una vera e propria food mania che ha trasformato il cibo in spettacolo, con una ricca serie di programmi trasmessi ormai a tutte le ore, prima serata compresa, su un gran numero di canali, conquistando il favore di migliaia di persone che, proprio come con una fiction o una telenovela, non si perdono una puntata della loro trasmissione preferita.

E così, quelli che fino a pochi anni fa erano programmi riservati alla fascia oraria del pranzo, con un target di pubblico sempre più ampio e la cui età media va decrescendo. Il trend gastronomico insomma sta conoscendo un lungo periodo di ‘gloria’, tra chef che conquistano la notorietà mediatica al pari dei personaggi del mondo dello spettacolo e concorrenti che si cimentano in competizioni a suon di portate, dagli antipasti ai dolci. E con loro il linguaggio gastronomico ha progressivamente cambiato forma e dalla semplice ‘trasmissione di informazioni di carattere culturale’ è divenuto il veicolo per catturare i telespettatori e fare audience.

Tanto che oggi quasi tutte le reti televisive hanno inserito programmi di cucina nel loro palinsesto, ai quali si aggiungono i canali interamente dedicati alla gastronomia. Spettacolo, ma anche buona cucina che sfruttando il mezzo televisivo arriva nelle case degli italiani sotto forma di consigli, richiami alla tradizione e, perchè no, anche un po’ di sano divertimento.

Dom Pérignon, il monaco che inventò lo champagne

Tutti sanno cosa sia il Dom Pérignon, ma pochi in realtà sanno chi sia Dom Pérignon.
Secondo alcune fonti la marca francese dello champagne più famoso del mondo prenderebbe il nome da un monaco benedettino, Pierre Pérignon, che nel lontano XVII secolo avrebbe inventato il vino con le bollicine. Nel 1688 Dom Pierre mette in atto il procedimento che per la prima volta rende i vini di Champagne, in origine rossi e fermi, “spumanti”, cioè dotati di schiuma e bollicine.
Monaco di “professione” e fine enologo per passione, Pérignon si dedicò alle vigne dell’abbazia di Hautvillers, nella regione francese della Champagne, dove era entrato nel 1668 come tesoriere e economo. Tra le sue mansioni era prevista anche la cura delle vigne, un lavoro che lo appassionò molto, tanto è vero che alla sua morte Dom Pierre lasciò ventiquattro ettari di terreno perfettamente tenuti, che producevano vini di buona qualità e molto apprezzati, riuscendo, proprio grazie alla produzione vinicola, a risanare le finanze dell’abbazia.
Secondo la leggenda lo champagne non sarebbe stato il frutto di un’intuizione o di un esperimento voluto, ma semplicemente il risultato di un errore. Il benedettino avrebbe scoperto la cosiddetta “presa di spuma” accorgendosi che alcune bottiglie di vino, lasciate in cantina ad affinare, erano scoppiate. Dom Pérignon infatti aveva avuto l’idea di far colare della cera d’api all’interno del collo delle bottiglie per assicurare una chiusura ermetica. Ma dopo qualche settimana, a causa dell’eccessiva pressione, le bottiglie scoppiavano, fu così che Pierre scoprì la “methode champenoise”.
Secondo un’altra versione, invece, Dom Périognon avrebbe scoperto la spuma dello champagne per caso; aromatizzando il vino con fiori e zucchero si sarebbe accorto che questi producessero una specie di spuma al momento dell’apertura delle bottiglie.
Se possiamo nutrire dei dubbi sulla sua effettiva invenzione dello champagne, non si può non riconoscergli il fatto di aver apportato dei miglioramenti nelle tecniche di produzione dei vini. Dom Pérignon, attraverso la sua attività, maturò nel corso degli anni una mirabile esperienza e conoscenza sulla coltivazione della vite, ricavando molte informazioni che successivamente annotò nelle sue memorie. Il monaco si era messo a studiare le varie tipologie di uva e ne studiava il prodotto. Si dice che fosse astemio ma che avesse un palato e un gusto così raffinato che assaggiando un solo acino d’uva riusciva a individuarne la zona di provenienza. Sapeva come scegliere le piante in base al tipo di terreno, come tagliarle, come mescolare le uve. Escogitò infatti la tecnica dell’assemblaggio, che consiste nel mettere insieme uve del medesimo tipo ma provenienti da zone diverse per ottenere annate omogenee e di qualità superiore. Contribuì notevolmente a migliorare la qualità dei vini dell’epoca, privilegiò il pinot noir, più adatto alla produzione dello champagne, rispetto al bianco, capì l’importanza di cogliere l’uva matura, migliorò la stabilizzazione dei vini. Si dice che fu sua anche l’idea di sostituire i tappi di legno con quelli di sughero, più leggero, impermeabile, molto più adatto a conservare la spuma dei vini. Sua sarebbe anche l’invenzione della gabbietta metallica. Ma soprattutto, sempre secondo la tradizione, ebbe l’intuizione di unire lo Chardonnay bianco con il Pinot nero, aprendo la strada alla leggenda del Dom Pérignon che conosciamo oggi. Insomma in conclusione diede un grande impulso alla produzione e al commercio di vino di tutta la regione dello Champagne.
I “detrattori” del monaco benedettino sostengono che Dom Pérignon non solo non abbia inventato lo champagne, ma che addirittura abbia passato la vita a cercare una soluzione per i suoi vini, che avevano quel fastidioso, quanto inspiegabile, difetto di rifermentare nelle bottiglie una volta giunta la primavera. Dom Pierre avrebbe quindi sempre cercato il modo di eliminare effervescenza e bollicine, che d’altra parte per molti suoi contemporanei rappresentavano una “depravazione del gusto”.
La stessa scuola di pensiero riconduce l’invenzione dello champagne agli inglesi. In effetti ad oggi non è stato ritrovato alcun documento, né tra le memorie di Dom Pérignon, né tra quelle dei suoi allievi, che attesti l’invenzione del vino con le bollicine. Al contrario a Londra esiste uno scritto datato 1662, quindi ben sei anni prima dell’arrivo di Dom Pérignon all’abbazia di Hautvillers, in cui l’autore fa riferimento a un procedimento che veniva messo in atto abitualmente da tavernieri e mercanti di vino inglesi. Pare che questi aggiungessero grandi quantità di zucchero e melassa in ogni tipo di vino per renderlo vivo e frizzante, e che poi lo conservassero all’interno di bottiglie di vetro molto più solide di quelle francesi e resistenti alla pressione. Con la primavera e l’aumento della temperatura la fermentazione riprendeva provocando il rilascio dell’anidride carbonica che, al momento dell’apertura, produceva le famose bollicine.

I grandi personaggi della ristorazione: Marie-Antoine Carême

Marie-Antoine Carême (1783-1833) sta alla cucina come César Ritz sta all’arte dell’ospitalità.
Ciò che li accomuna è senz’altro il fatto di essere stati autori di una grande rivoluzione all’interno del loro ambito lavorativo ma anche il soprannome che è stato loro affibbiato: come Ritz era noto come “re degli albergatori e albergatore dei re”, così Carême venne presto nominato il “cuoco dei re e il re dei cuochi”.
Sebbene gran parte della sua vita sia trascorsa a contatto con l’alta società e in ambienti di lusso, le origini di Carême sono molto umili. Ultimo di quindici figli, all’età di otto anni viene abbandonato dal padre, operaio squattrinato incapace di provvedere a tutta la famiglia. Questa circostanza drammatica si rivelerà in realtà una grande occasione per Marie-Antoine: accolto da un oste proprietario di una squallida bettola, avrà modo di familiarizzare fin da piccolo con il mondo della gastronomia e apprendere le sue prime lezioni di cucina. A quindici anni viene assunto come apprendista da Bailly, uno dei migliori pasticcieri di Parigi. Il suo destino è segnato e da quel momento in poi la sua carriera come cuoco e pasticciere è tutta in discesa, complici le doti naturali e la spiccata curiosità.
Secondo molti, Marie-Antoine Carême può essere considerato il fondatore della haute cuisine e sarebbe stato il primo nella storia a essere insignito dell’appellativo di chef. Certo è che Carême fece della cucina una vera e propria arte, per la prima volta regolata e codificata come fosse una sorta di scienza. Stabilendo per ogni ricetta i tempi di cottura e le quantità precise, Antonin (così veniva soprannominato) dà il via alla cucina moderna.
La fama di Carême è dovuta soprattutto alle sue indiscusse capacità di pasticciere, è nella creazione dei dolci che il giovane Marie-Antoine dà il meglio di sé, coniugando la sua abilità in cucina con una spiccata creatività. D’altra parte Carême ama moltissimo disegnare e, grazie alla sua straordinaria manualità, riesce a realizzare delle magnifiche torte e stupefacenti centrotavola, elaborati e dall’architettura complessa, tanto da lasciare sbalorditi anche nobili e ricchi signori e da attirare fin da subito richieste e ordini prestigiosi.
Come César Ritz aveva colto la necessità di creare degli hotel di lusso capaci di accontentare la nobiltà e l’alta borghesia, allo stesso modo Carême aveva capito che lo stesso lusso e la stessa scenografia sfarzosa dovessero prendere posto sulle tavole dei grandi personaggi dell’epoca.
La cura di Carême nella realizzazione delle torte è maniacale, il giovane parigino passa infatti le sue notti a disegnare, a fare calcoli complicati e a studiare le opere dei grandi architetti della classicità, che ha modo di osservare frequentando assiduamente il cabinet des estampes della biblioteca nazionale, dove, tra l’altro, impara da solo a leggere e scrivere. Antoine si convince presto che tra architettura e pasticceria non ci sia in realtà una grande differenza, anzi arriva a considerare la seconda un ramo, una specializzazione della prima. È proprio in questo campo che Carême lascia un segno indelebile nella storia della cucina, la sua attenzione per la decorazione monumentale e la presentazione scenografica dei piatti farà scuola.
Tra le invenzioni che vengono attribuite a Carême ci sarebbero i vol-au-vent, le meringhe e svariate salse di accompagnamento. Queste ultime rappresentano una piccola rivoluzione, sono infatti particolarmente leggere e delicate, pensate per esaltare il gusto delle pietanze, a differenza di quelle usate fino a quel momento, di derivazione medievale, che avevano lo scopo di coprire con un forte sapore la qualità scadente degli alimenti utilizzati.
Carême nel corso degli anni prende servizio come cuoco presso i grandi e potenti signori dell’epoca, che letteralmente se lo contendono: prima Monsieur de Lavalette, poi il principe di Tayllerand, infine il principe reggente d’Inghilterra, futuro re Giorgio IV. Successivamente Carême si trasferisce a San Pietroburgo presso la corte dello zar Alessandro I, e poi si ferma per qualche anno dai Rothschild, accrescendo a dismisura la sua fama.
Oltre che cuoco e pasticciere, Carême è stato anche un fine gastronomo, dedicò una buona parte del suo tempo a scrivere delle opere che ancora oggi possono essere considerate fondamentali per comprendere l’evoluzione della cucina. Aveva talmente a cuore i suoi studi che si dice che abbia speso gli ultimi istanti della sua vita a dettare alla figlia degli appunti. Due sono le opere principali di Carême: Il maître francese o un parallelo tra la cucina antica e quella moderna e Il pasticcere parigino del re, entrambe corredate da molte immagini, realizzate e curate dallo stesso autore.
Possiamo infine considerare Carême un designer ante-litteram, si dedicò infatti anche a disegnare alcuni utensili di cucina, come tegami, tortiere, stampini per dolci e il tradizionale berretto da cuoco, la toque a forma di fungo che sostituirà il semplice copricapo di cotone fino a quel momento utilizzato.

Antoine Augustin Parmentier

Se vi è capitato di visitare Parigi, molto probabilmente girando con il métro vi sarete imbattuti in una stazione un po’ particolare che ospita una singolare esposizione sulle patate. La stazione si chiama Parmentier, come Antoine Augustin Parmentier (1737-1813), l’agronomo che per primo comprese l’importanza nutrizionale delle patate, rivoluzionando le abitudini alimentari e la cucina occidentale. Il fatto che la capitale francese abbia voluto dedicargli una stazione della metropolitana, con tanto di mostra permanente a imperitura memoria, fa capire quanto il personaggio sia ammirato e celebrato.

Parmentier è stato il promotore di una piccola rivoluzione culturale e alimentare: farmacista, chimico e agronomo, studiò le proprietà nutritive delle patate, riabilitandole e sforzandosi di promuoverle come ortaggi nutrienti e salutari. Fino a quel momento infatti, il tubero era stato erroneamente disprezzato poiché lo si considerava pericoloso per la salute dell’uomo e addirittura colpevole di trasmettere la lebbra, a tal punto che veniva utilizzato solo per l’alimentazione dei maiali.

La “scoperta” delle patate avviene in occasione di uno studio condotto dallo speziale francese a partire dal 1771, in seguito a un concorso bandito dall’Académie de Besançon, in cui si chiedeva di elaborare un trattato che avesse per oggetto quegli ortaggi che, nei periodi di carestia, avrebbero potuto sostituire quelli consumati normalmente. Parmentier inizia così un’analisi approfondita delle caratteristiche del tubero di origine americana, partendo dalle intuizioni che provenivano dalla sua personale esperienza: durante la Guerra dei Sette Anni, il ventenne Parmentier, all’epoca farmacista dell’esercito, era stato catturato dai prussiani, e durante la prigionia non aveva mangiato altro che povere minestre e poltiglie a base di patate. Durante quel periodo si era soffermato ad analizzare le conseguenze di quel tipo di alimentazione sul suo corpo. Osservando che non ne derivavano effetti collaterali, e che anzi le sue forze non diminuivano, si era convinto dell’effetto benefico delle patate, che successivamente arrivò ad attribuire all’amido che esse contengono.

Una volta finita la guerra e rientrato in patria, Antoine Augustin, dopo essere stato nominato farmacista dell’Hotel des Invalides, decise di fare tutto quanto era in suo potere per una missione che potremmo definire umanitaria, cioè porre fine alle carestie che da decenni mettevano in ginocchio il regno di Francia. Più tardi scriverà nelle sue carte che la priorità delle sue ricerche era il cibo del popolo, e il loro scopo era quello di riuscire a migliorarne la qualità e abbassarne i costi.

Costretto a scontrarsi con pregiudizi e resistenze ma convinto della validità delle sue intuizioni, Parmentier organizza una serie di cene e degustazioni a base di patate invitando ospiti illustri, come Benjamin Franklin e Lavoisier. Oltre che un ottimo scienziato Antoine Augustin era infatti anche un abile divulgatore e comunicatore, capace di garantirsi una buona visibilità sui giornali e di spiegare le proprie scoperte alla massa, che cercava di convincere del fatto che la coltivazione delle patate potesse essere portata avanti anche nei terreni più poveri e sterili. Parmentier riesce a convincere anche re Luigi XVI che, incuriosito dalle idee dell’agronomo, nel 1785 gli offre un  appezzamento di terreno, nella plaine des Sablons, alle porte di Parigi, per coltivare i tuberi.  In seguito Luigi XVI farà servire patate alla sua tavola e stabilirà che la patata sia classificata finalmente come pianta utile. Secondo alcune fonti, alla prima fioritura delle patate, Parmentier si sarebbe precipitato a Versailles per mostrare al re il primo risultato dei suoi sforzi, e Luigi XVI avrebbe messo uno di quei fiori tra i capelli di Maria Antonietta, pronunciando questa frase: “La Francia un giorno vi ringrazierà, Monsieur Parmentier, per aver trovato il pane dei poveri”.

Grazie all’opera di Parmentier, a partire dal XVIII secolo le patate si diffondono in tutta la Francia e l’Europa, diventando in breve tempo parte integrante dell’alimentazione quotidiana, tanto che ancora oggi sono tra gli alimenti più apprezzati, soprattutto per la preparazione di gustosi contorni. In omaggio al suo scopritore, alcuni piatti a base di patate presero il suo nome, come le uova Parmentier e il pasticcio (hachis) Parmentier.

Il contributo di Parmentier non si è, però, limitato alla scoperta delle patate, essendo stato farmacista, agronomo, chimico, enologo, nutrizionista e igienista ante litteram, ha influito enormemente su tanti aspetti della cultura alimentare occidentale. Grazie alla sua intelligenza ma soprattutto al suo impegno per la collettività, spinto dal desiderio di eliminare le carestie e migliorare le condizioni di vita delle frange più svantaggiate della popolazione, Parmentier si dedicò allo studio di molti altri prodotti, come le castagne, il mais e il latte. Analizzò anche le proprietà del cioccolato e mise a punto nuove forme di conservazione degli alimenti basate sulla refrigerazione. Infine, fondò una scuola per fornai, dopo aver pubblicato un trattato sulla fabbricazione e sul commercio del pane.

Il critico gastronomico

È il più temuto fra tutti i professionisti del settore ristorativo e gastronomico. Spesso lavora in incognito e il suo viso è sconosciuto ai più, ma la sua firma è ben nota.  Le sue armi? Palato raffinato e penna tagliente. 

Stiamo parlando del critico gastronomico, un esperto che assaggia e giudica per professione.
Il critico gastronomico è sostanzialmente un giornalista che ha il compito di testare la qualità dei ristoranti, esprimere un giudizio al riguardo e renderlo pubblico attraverso la redazione di articoli su giornali, riviste di settore o guide. Capace di influenzare i lettori, di spostare con poche righe l’opinione pubblica, il parere di un critico gastronomico, soprattutto se molto autorevole e stimato, può cambiare le sorti di tanti ristoranti.

Per molti è il lavoro dei sogni, per almeno tre motivi: si è pagati per degustare prelibatezze nei migliori ristoranti; si può esercitare il “potere” di giudizio su tutto e tutti, osannando e stroncando celebrity chef a piacimento; non occorre avere una competenza tecnica in cucina.

Eppure in pochi riescono a diventare critici gastronomici e a vivere esclusivamente del loro lavoro di “assaggiatori”.
Nonostante le barriere di accesso alla professione non siano poi così alte per via della natura non tecnicistica della preparazione richiesta, la strada di chi vuole diventare critico è tutta in salita.
In ogni caso, cosa dovrebbe fare e quali caratteristiche dovrebbe avere un aspirante critico?

Innanzitutto un critico gastronomico, avendo come compito quello di assaggiare e criticare, nel senso neutro di sottoporre a un esame critico, deve avere una base di conoscenze culinarie tale da permettergli di valutare con cognizione di causa. Per questo deve avere molta esperienza per ciò che riguarda cucina e gastronomia, il che non significa che debba essere necessariamente lui stesso uno chef ma che abbia la capacità di giudicare un piatto, valutando i prodotti da cui è composto, le tecniche di preparazione del cibo, e l’impegno con cui il tutto viene realizzato. Il critico gastronomico elabora un giudizio complessivo sulla struttura che testa, esprimerà quindi un’opinione non solo sul cibo ma anche su tutto il contorno, ovvero arredo, servizio, igiene e accoglienza.

Dopo aver concluso il momento gastronomico, e aver cioè assaggiato e valutato, il critico si predispone a mettere in atto la seconda fase del suo lavoro, che consiste nel comunicare in modo efficace la propria esperienza e la propria opinione. Per evidenti ragioni quindi, dovrà possedere una certa facilità e abilità di scrittura, deve in sostanza essere un buon comunicatore.

Alla conoscenza culinaria e alla bella scrittura, si deve aggiungere un terzo ingrediente per completare il ritratto del critico gastronomico. Un ingrediente fondamentale ma piuttosto sfuggente e difficile da acquisire. Se infatti le conoscenze si possono facilmente apprendere con lo studio e l’esperienza, e l’abilità nello scrivere con l’esercizio, la credibilità e l’autorevolezza sono caratteristiche che solo pochi riescono a ottenere. Il lavoro di un critico dipende molto dall’opinione degli altri, in quanto sia la credibilità che l’autorevolezza sono caratteristiche che gli altri attribuiscono al critico, il quale dovrà certo sapersele conquistare e poi mantenere nel tempo. Questo aspetto del costruirsi un nome e una reputazione, è quello più complicato, un buon modo per rafforzarlo consiste nel tessere relazioni significative con giornali, guide e pubblicazioni specialistiche.

Coloro che hanno un’esperienza pregressa come chef o in generale come professionisti del settore ho.re.ca, sono certamente avvantaggiati e allenati, e possono mettere a frutto le proprie conoscenze nella fase dell’analisi e della valutazione. Chi invece inizia da semplice appassionato e proviene magari da percorsi di studio umanistici, può sfruttare la propria capacità comunicativa e iniziare a farsi conoscere aprendo e animando un blog personale.

Come tutte le professioni, anche quella del critico gastronomico presenta alcuni aspetti piacevoli e altri un po’ meno, riassumendo:

Tre vantaggi:

  • Si ha l’opportunità di gustare i migliori piatti in circolazione e di essere sempre al passo con le ultime tendenze culinarie
  • È un lavoro che offre molte opportunità di conoscenza e scoperta attraverso continui viaggi e spostamenti. Occorre girare parecchio per andare a sperimentare le cucine dei ristoranti sparsi per la nazione, non solo quelli alla moda ma anche le piccole trattorie di paese.
  • C’è la possibilità di raggiungere guadagni consistenti e acquisire una discreta notorietà

 Tre svantaggi

  • È un lavoro di grande responsabilità: se una valutazione positiva può dare una grande mano e incrementare il successo di un ristorante, una negativa può avere come conseguenza una perdita di fiducia nei confronti di un locale e, nel peggiore dei casi, il suo fallimento.
  • Essendo una professione fondata sulla propria capacità di valutazione, spesso la trasparenza e la libertà di giudizio di un critico gastronomico possono essere messe alla prova, e si è spesso costretti a barcamenarsi tra pressioni e connivenze con i vari attori della filiera interessati.
  • Mangiare spesso fuori casa (almeno due volte al giorno) e consumare pasti particolarmente pesanti e elaborati può avere qualche ripercussione sulla linea e sulla salute.

La rivincita delle donne: 5 cuoche in tv

Checché se ne dica, i programmi tv incentrati sulla cucina o che in un modo o nell’altro girano attorno a questioni di fornelli continuano ad essere di grande attualità.
Oltre ad essere al centro di dibattiti e vivaci scambi di opinioni tra addetti ai lavori e fini esperti di linguaggi televisivi, i cooking show non cessano di essere assiduamente seguiti da una folta schiera di telespettatori e soprattutto telespettatrici.
In effetti sembra proprio che sia il pubblico femminile il target di riferimento di queste trasmissioni, nonostante il mondo della cucina rimanga ancora oggi prettamente maschile, nonostante il re dei programmi tv ovvero Masterchef preveda solo giudici uomini, malgrado l’alta concentrazione testosteronica negli ormai innumerevoli show con i vari Gordon Ramsay, o i nostrani Borghese e Rugiati. Per far fronte a questa “sovraesposizione maschile”, dedichiamo un piccolo spazio a cinque cuoche (o presunte tali) protagoniste del piccolo schermo.

Antonella Clerici
Bisogna ammetterlo, è stata lei la pioniera dell’offensiva mediatica della cucina e della conseguente invasione delle librerie da parte dei libri di ricette. Da ben quattordici anni la Clerici è in tv, al timone del programma di Rai1 La prova del cuoco, dove due squadre, composte da una persona comune e da uno chef professionista, si sfidano preparando ricette in un tempo prestabilito.
Nel 2013 la Clerici si è lanciata nella conduzione di un nuovo programma, La terra dei cuochi, l’ennesimo “nuovo” talent tv a base di fornelli e padelle. Forse per la scarsa originalità del format, lo show, in cui otto aspiranti chef si sfidavano per vincere il montepremi finale, non ha avuto il successo e il seguito sperati.

Benedetta Parodi
Regina incontrastata dei palinsesti tv già da diversi anni, dopo una carriera da giornalista e conduttrice di telegiornali, è ormai la star di numerosi programmi a vocazione culinaria. Ha iniziato con la rubrica Cotto e mangiato, dove direttamente dalla cucina di casa suggeriva piatti semplici e veloci. Poi l’abbiamo vista alla guida di un programma tutto suo su La7, I menù di Benedetta, dove la giornalista ha continuato a proporre una cucina alla portata di tutti, combattendo la sua crociata a favore di surgelati, preparati e ricette salvacena. Lo scorso novembre la Parodi ha detto addio a La7 ed è sbarcata su Real Time con un nuovo programma, Bake off Italia, interamente dedicato ai dolci. Nel programma aspiranti pasticceri gareggiano a colpi di torte e prodotti da forno, sotto la guida bonaria della conduttrice.

Csaba Dalla Zorza
Milanese di nascita, specialista in marketing editoriale, ha girato molto e vissuto in varie nazioni del mondo. Scrive libri di cucina, è molto appassionata di ricette ma anche di life style, con un debole per la mise en place. È infatti proprio con il nome di “la signora che apparecchia” che inizia la carriera tv di Csaba, prima sul canale Class NBC, poi su Arturo e infine su Alice tv, nel 2010. Infine approda alla rete Real Time dove conduce dal 2011 “Merry Christmas” con Csaba, e “Summer cooking” con Csaba. Il suo stile è piuttosto riconoscibile, si distingue per la ricerca di eleganza e pacatezza, con un pizzico di affettazione.

Nigella Lawson
Giornalista britannica, ha condotto diversi programmi alla tv inglese e pubblicato svariati libri di ricette diventati bestseller. Nigella non è una vera chef, ma una semplice appassionata di cucina. La sua filosofia consiste nel proporre piatti piuttosto semplici da realizzare e dispensare consigli su come preparare cene normali e accessibili. Ha condotto su Real Time i programmi “In cucina con Nigella” e “Nigellissima”, in cui insegna a preparare ricette tipiche della cucina italiana, molte delle quali scoperte durante un soggiorno a Firenze. Compagna del gallerista milionario Charles Saatchi, ultimamente è stata spesso protagonista della cronaca, suo malgrado, per diversi incidenti diplomatici (ma non solo) in cui è stata coinvolta da quello che è ormai il suo ex marito.

Paola Azzolina
Paola Azzolina è stata una delle prime a importare in Italia (e nella tv italiana) la mania, ormai dilagante, del cake design.
Probabilmente prendendo ispirazione dal successo del boss delle torte Buddy Valastro, le è stata affidata la conduzione di Torte d’autore, un programma tv in onda su La5 dove la pasticcera insegna a realizzare, con cioccolato plastico e pasta di zucchero, i classici oggetti del desiderio del pubblico femminile. Appassionata di moda, la cake designer si sbizzarrisce nel creare borse, gioielli e scarpe glamour, riproducendo anche modelli di griffe famose.

L’universo del vino: I 10 sommelier migliori del mondo

L’universo del vino attrae sempre più curiosi e il nettare degli dei, per i sommelier, da semplice passione, diventa sempre più spesso un’opportunità di lavoro e carriera. Negli ultimi anni si sono moltiplicati i corsi di formazione per assaggiatori e degustatori, e la fama e il prestigio dei sommelier sono cresciuti esponenzialmente, in Italia come all’estero.
Numerose associazioni sono state fondate con l’obiettivo di promuovere il prodotto vino e i professionisti che gli orbitano attorno, organizzando spesso gare e competizioni su scala europea o mondiale. Tra i concorsi più noti attualmente c’è quello organizzato dall’Association de la Sommellerie Internationale, competizione molto prestigiosa con cadenza triennale e quello della Worldwide Sommelier Association (nata da un’iniziativa dell’Associazione Italiana Sommelier), che ogni anno elegge il  Best World Sommelier. Entrambi i concorsi, sebbene spesso in conflitto e disaccordo tra loro, sfornano regolarmente le migliori leve della sommellerie mondiale, che vi facciamo conoscere meglio in questa nostra top ten.

Luca Gardini
Figlio d’arte, a soli 23 anni diventa miglior sommelier d’Italia. Inizia a muovere i primi passi nel settore dopo essersi formato alla tre volte stellata Enoteca di Firenze, sotto la guida di Giorgio Pinchiorri. Può vantare una collaborazione con uno dei ristoranti più famosi del mondo, l’inglese The fat duck e ha lavorato presso il Cracco di Milano, di cui è proprietario il noto chef omonimo. Il vino non è la sua unica passione, nel 2009 si è aggiudicato il titolo di miglior sommelier d’Europa grazie ad una originale proposta di acqua minerale.

Paolo Basso
Italo-svizzero, è forse il professionista più titolato: dopo essere arrivato per ben tre volte a un passo dalla vittoria come vice campione, nell’aprile del 2013 riceve finalmente il premio come miglior sommelier del mondo, a Tokyo. La sua “filosofia degustativa” è improntata alla scoperta: l’aspetto più affascinante del suo lavoro sta nel fatto che ci sia sempre tutto da scoprire; nulla, in ciò che riguarda il vino, può essere considerato assodato.

Luca Martini
Aretino di 33 anni, è sommelier presso l’Osteria Da Giovanna, ristorante della sua città. Ha avuto la fortuna di lavorare a Londra con Steven Spurrier, nota firma di «Decanter magazine», una delle riviste di settore più autorevoli al mondo. Oltre a gestire la cantina dell’Osteria è impegnato nel settore della formazione e in quello del marketing, collabora infatti con un’agenzia di comunicazione.

Gérard Basset
Francese di nascita ma cittadino britannico da molti anni, Basset è stato il fondatore della catena di alberghi di lusso dedicati al nettare degli dei: gli Hotel du Vin. Per il contributo offerto al settore dell’ospitalità in Gran Bretagna, ha ricevuto l’onorificenza di Officer of the Order of the British Empire (OBE). Nonostante ne abbia fatto una professione e un business, per lui il vino è soprattutto “piacere e convivialità”.

Olivier Poussier
Da circa vent’anni affianca, in qualità di sommelier, i più importanti chef europei. È responsabile degli acquisti del gruppo Lenôtre e lavora come consulente per diverse grandi aziende, non tutte francesi e non tutte del settore gastronomico, come Air France e Heineken. Scrive e interviene costantemente sulla stampa specializzata e collabora alla redazione della guida Les meilleurs vins de France, edita dalla «Revue du vin de France».
Aldo Sohm
Italiano di nome, austriaco di origini e statunitense di adozione, Sohm diventa il miglior sommelier del mondo nel 2008, ma già negli anni precedenti si fa notare per la sua competenza: nel 2006 il New York Magazine lo indica come miglior sommelier in circolazione nella grande mela. In questa stessa città Aldo lavora come wine director in un noto e pluristellato ristorante, Le Bernardin.

Andreas Larsson
Lo svedese Larsonn, “incoronato” nel 2007, ha saputo conquistarsi un’ottima reputazione a livello internazionale come degustatore preparato e raffinato. Il suo ingresso nel mondo dell’enogastronomia avviene in veste di chef, ma ben presto scopre una vera passione per il vino, coltivata durante numerosi viaggi in Europa. Ha una particolare predilezione per i vini francesi.

Enrico Bernardo
Altro italiano ad essere salito sul podio della sommellerie internazionale, Bernardo è il più giovane professionista della storia a ricevere il titolo di miglior sommelier del mondo, nel 2004, all’età di 27 anni. Ha aperto due ristoranti e una boutique a Parigi. Oggi si occupa di formazione e gestisce una società di consulenze per aziende che producono e distribuiscono vino e, più in generale, per realtà legate al settore della gastronomia. Scrive libri e disegna bicchieri da degustazione.

Markus Del Monego
Di origini svizzere, è il primo, e finora unico, tedesco ad aver ottenuto il titolo di miglior sommelier del mondo. É anche il primo sommelier della storia ad aver ottenuto contemporaneamente il prestigiosissimo titolo di Master of Wine. Dedica la maggior parte del suo tempo alla gestione della CaveCo, la sua società di consulenza.

Gérard Margeon
Pur non essendo mai stato nominato miglior sommelier del mondo, Gérard Margeon non poteva mancare in questa (parziale e arbitraria) classifica in virtù dell’influenza che esercita su tutto il settore e per la sua fama di “magnate”. Ottiene il primo incarico da sommelier a Biarritz, presso il Miramar, poi a Parigi al Méridien Montparnasse, qui avviene l’incontro con Ducasse e la svolta: il Louis XV di Monte Carlo. In quanto chef sommelier del gruppo Alain Ducasse, si ritrova a supervisionare quotidianamente la carta dei vini di decine di ristoranti e hotel sparsi nel mondo. È particolarmente noto per aver adottato un approccio diverso e innovativo al vino e alla sua degustazione.

Film e cucina: 5 chef sul grande schermo

Quello tra il cinema e la cucina è un amore di lungo corso, un abbinamento che si rivela spesso e volentieri vincente.
Scorrendo le uscite al cinema degli ultimi anni, non faremo fatica a trovare esempi di pellicole che infarciscono le loro trame con ricette, lunghe scene di pranzi e cene e personaggi dalle spiccate capacità culinarie.
D’altra parte i film raccontano gli essere umani, e nell’ esistenza dell’uomo il cibo e la cucina hanno sempre occupato un ruolo importante, non solo come soddisfazione di esigenze primarie ma anche e soprattutto perché capaci di creare occasioni di socialità e condivisione.
Sempre più spesso però registi e sceneggiatori, per la costruzione di intrecci o personaggi, attingono e prendono ispirazione da quei contesti in cui il cibo e la cucina fanno parte della sfera professionale. Sono sempre più frequenti le incursioni nel mondo dell’alta cucina, dei ristoranti, dei grandi hotel, e soprattutto i riferimenti alla figura dello chef che, per il ruolo carismatico che ricopre, ben si presta, a seconda dei casi, a omaggi o dileggi e a diventare protagonista di molte storie.
Tra i film che hanno messo in primo piano il personaggio dello chef abbiamo individuato i seguenti cinque:

Chef
Citando questo film anticipiamo un po’ i tempi dato che la pellicola uscirà nelle sale solo a maggio 2014, ma considerato il titolo (non proprio originale visto l’omonima pellicola francese di Daniel Cohen del 2012) e la trama, non potevamo proprio evitare di inserirlo nella nostra top 5.
Jon Favreau, attore, regista e produttore statunitense, dirige un film che ha per protagonista un cuoco che lavora in un ristorante di lusso e che, dopo essere stato licenziato, si reinventa come chef di un più prosaico locale, una specie di chiosco-camion ambulante. Il film ha il ritmo e i toni della commedia e si avvale del contributo di un cast stellare: oltre allo stesso Favreau nei panni del protagonista, vedremo gironzolare tra cucine e ristoranti Robert Downey Jr., Scarlett Johansson e, nientepopodimeno che,  Dustin Hoffman.

La cuoca del presidente
Film del 2012, racconta la storia di Hortense Laborie, cuoca provetta che, nominata chef personale del presidente della repubblica francese, desideroso di piatti semplici e preparati come una volta, si ritrova catapultata direttamente dalla sua fattoria nel Périgord all’Eliseo. Ispirato alla storia vera di  Danièle Delpeuch, storica chef di  François Mitterrand, il film è molto interessante poiché, oltre a raccontare una storia singolare che pochi conoscono, fa emergere un aspetto della professione dei grandi chef che spesso rimane nascosta e invisibile: l’altra faccia della medaglia fatta di invidie, boicottaggi e meschinità.

Ratatouille
Delizioso film di animazione ispirato al mondo dell’alta cucina. Anche qui Parigi si impone come capitale mondiale della gastronomia e dell’arte culinaria, mentre l’Italia è rappresentata dall’imbranato sguattero Alfredo Linguini, ma avrà il suo riscatto quando si scoprirà la vera identità del ragazzo. Il film racconta le avventure di Remy, ratto dall’olfatto e il gusto raffinato che, sfogliando le pagine del libro dello chef, suo idolo, Auguste Gusteau, sospira e sogna di diventare un grande cuoco. Con la chiave dell’ironia e del sorriso il film pone l’accento sul tema della passione, ingrediente indispensabile di ogni professionista, capace di far superare ogni barriera e ostacolo. Il lungometraggio ha anche il merito di aver raccontato per la prima volta in un cartone il mondo dell’alta cucina, quello dei cuochi e dei critici gastronomici temuti, dove la competizione la fa da padrona e dove è il numero di stelle a decidere della sorte di tutti, stroncando senza pietà i sogni e la passione di molti. Per la realizzazione del film sono state utilizzate quasi trecento ricette, ognuno dei trecento piatti è stato cucinato realmente e poi fotografato per essere rielaborato al computer.

Chef
Altro film incentrato sulla figura dello chef, che non a caso dà il titolo alla pellicola. Commedia leggera, racconta l’incontro tra un cuoco appassionato e geniale ma un po’ sfortunato e un po’ incompreso, e uno chef affermato in crisi di ispirazione, alla ricerca di qualcosa o qualcuno che possa risollevare le sorti del ristorante in cui lavora. Il noto e amato Jean Reno, insieme a Michaël Youn, anima una storia piacevole e senza pretese che conduce lo spettatore nel mondo della haute cuisine, dove non sempre la passione e il talento bastano. Anzi, dove spesso manager e affaristi dirigono ristoranti e personale qualificato focalizzati esclusivamente sul profitto, senza avere competenze nel settore e incapaci di guardare all’arte della cucina.

Vatel
Vatel è un film di qualche tempo fa, precisamente di quattordici anni fa, che racconta un episodio cruciale della vita del famoso chef della corte del Re Sole, nella Francia del 1600. François Vatel viene incaricato dal suo “principale”, il Principe di Condé, di occuparsi dell’accoglienza di Luigi XIV, ospite presso la dimora dello stesso principe. Il film segue Vatel alle prese con i preparativi ed è un omaggio alla fastosità e alla creatività dei banchetti messi in piedi dal maestro cerimoniere; molte scene infatti descrivono nel dettaglio le fasi preparatorie in cucina o nell’ allestimento. La pellicola si conclude rievocando il gesto estremo di un uomo totalmente assorbito dal proprio lavoro, tanto da sacrificarvi un’intera esistenza.

Marco Gavio Apicio. Lo chef ai tempi dei romani

Il nome di Apicio viene spesso citato per designare uno dei primi cuochi della storia del mondo occidentale: vissuto nel I secolo d.C., secondo alcune fonti sarebbe stato il cuoco ufficiale e personale dell’imperatore Tiberio.
Sull’ identità e la presunta professione del cuoco si nutrono però diversi dubbi, alcuni studiosi tendono addirittura ad escludere l’esistenza di un unico Apicio: la ricostruzione storica corrente ha, infatti, ricondotto questo nome ad almeno tre personaggi differenti, vissuti in tre epoche diverse. Un Apicio del 161 a.C. che, al contrario del più noto degli Apici, si batteva contro lo sperpero alimentare; il famoso cuoco Marco Gavio Apicio, e infine un omonimo che visse sotto l’impero di Traiano e che viene ricordato per essere stato lo scopritore di un metodo per conservare fresche le ostriche.
Se non possiamo affermare con certezza che Marco Gavio Apicio sia stato il primo cuoco in assoluto, sicuramente possiamo dire che sia stato uno dei personaggi più noti all’epoca e uno dei più influenti, capace di condizionare il successivo sviluppo della cucina e della gastronomia nel periodo rinascimentale.
Apicio è infatti l’autore di un trattato intitolato “De re coquinaria” che, tramandato nel corso dei secoli, fu ristampato alla fine del 1400, influenzando i professionisti e gli amanti della cucina rinascimentali.
Il trattato, che in dieci libri affronta il tema della cucina prendendone in esame vari aspetti, tra cui quello merceologico, può essere considerato il primo ricettario della storia. Secondo la versione più accreditata, l’opera deriverebbe dalla fusione di due unità distinte, solo successivamente unite: un testo dedicato interamente alla preparazione delle salse, e un libro di ricette illustrate. Nel trattato di Apicio si trovano informazioni di varia natura, consigli e ricette vere e proprie. Ci sono indicazioni su come conservare i cibi, come distinguere un alimento cattivo da uno buono, suggerimenti per la preparazione della cacciagione e liste di improbabili prelibatezze, per noi del XXI secolo del tutto incomprensibili, come ad esempio calli di dromedario, creste di volatili vivi, usignoli, o “pasticci di lingue di pappagalli parlatori”.
In ogni caso, si tratta di un ricettario particolare, certamente non una guida pensata per i pasti di tutti i giorni, ma la summa di una cucina ideata per stupire. Nel De re coquinaria si descrivono piatti che non venivano di certo consumati dalla gente comune ma che servivano a rendere unici e speciali i banchetti dei patrizi e dei ricchi romani, sempre molto attenti a dimostrare anche con “mezzi culinari” la propria superiorità e il proprio potere sugli altri invitati. Gli alimenti alla base delle ricette di Apicio non erano quelli consumati quotidianamente dai romani, che avevano al contrario una dieta molto semplice, ma erano scelti proprio per la loro stravaganza e fatti portare da chissà dove. Bisogna ricordare che Roma era allora la più grande potenza mondiale, i ricchi potevano così rifornirsi facilmente di qualsiasi prodotto proveniente da una qualunque regione dell’impero.
La fama di Apicio è giunta fino a noi proprio grazie alle ricette curiose e originali che sfoggiava durante i fastosi banchetti dei patrizi, ma anche per l’attenzione che poneva nella manipolazione degli alimenti, per la cura nella decorazione e presentazione dei piatti, talvolta molto scenografica, che anticipa il fasto e l’esagerazione dei cuochi rinascimentali. Apicio segna, in questo senso, una svolta nella storia della gastronomia, facendo del cibo uno status symbol: la concezione dei pasti come occasione di sfoggio e sfarzo, l’idea del banchetto come momento di spettacolo scenografico, la ricerca di pietanze originali e sorprendenti, tutto questo era funzionale all’idea di esprimere la ricchezza e il potere delle classi più abbienti.
Apicio, oltre che ottimo conoscitore della materia culinaria, era un vero buongustaio che amava molto il cibo così come il vino. Alcune fonti riportano che avesse aperto addirittura una sorta di scuola di cucina, dove i figli dei patrizi imparavano e conversavano di prelibatezze passeggiando come nelle accademie dei grandi filosofi. Originale, creativo e appassionato, Apicio dedicò gran parte della sua vita alla sua “professione” e ai piaceri della cucina, tanto che secondo alcuni morì suicida a causa delle condizioni di miseria in cui era caduto a forza di spendere e spandere per i suoi banchetti.
La notorietà del personaggio ha alimentato nel corso dei secoli un numero consistente di aneddoti e dicerie, molte delle quali difficili da credere o da provare. Si dice, ad esempio, che nutrisse le murene con la carne degli schiavi e i maiali con mosto dolce per ottenerne un fegato dal gusto particolare; secondo Plinio il Vecchio, Apicio sarebbe l’inventore del foie gras, sembra infatti che il cuoco romano alimentasse le sue oche con abbondanza di fichi per rendere il loro fegato più grasso e quindi più gustoso. Un’altra delle invenzioni che si attribuisce alla figura dello “chef” è la salsa di Apicio, o esca Apicii, un condimento molto diffuso e in voga ai suoi tempi, da cui sarebbe derivata la moderna scapece, termine con cui si indicano oggi pietanze di vario tipo condite e marinate nell’aceto.